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Proprio quella Cascata, infatti, col turbinio delle acque e la conseguente ventilazione, ha permesso nel tempo la vita agli abitanti di questo angolo di terra, chiuso tutt’ intorno da rilievi collinari e destinato ad essere una potenziale fossa malarica. Più volte nel corso di questi ultimi secoli ha rischiato la “morte” biologica, ma i suoi cittadini hanno sempre, con coraggio, salvato cascata e paese, impedendo che l’acqua a monte delle Cascate prendesse altre strade per alimentare industrie in altri territori o per carpirne tutta la forza generatrice di energia elettrica.

Interessante, al riguardo, e doviziosa di particolari è la documentazione riportata da Vincenzina Pinelli nel suo “Quaderno di ricerche”: I fiumi e le cascate, del 1983. Da lì attingiamo le prime voci di protesta da parte del Decurionato isolano che il 12 ottobre 1828 così annota nel registro delle deliberazioni «…non incorrasi nel vandalismo di difformare lo stato della così detta Cascata, e così distruggere ciò che dà un nome classico al nostro Comune fra tutti gli altri del Regno e ci fa andar rinfrancati da malsania di aria alla quale saremo senza questo salutare rimedio soggetti, stante la posizione locale del Comune».

E molti anni più tardi, il 29 maggio 1900, sempre in sede consiliare i membri autorevoli di una rigorosa e qualificata Commissione di studio ricorderanno con parole di fuoco che “le cascate del Liri, elargite a questa terra fortunata dalla provvida natura, costituiscono l’unica e vera difesa della pubblica igiene. Esse da tempo immemorabile abbelliscono questa valle e ne custodiscono la vita degli abitanti. Esse hanno vivificato i vostri avi, esse giornalmente difendono voi stessi da milla infermità e, finché esisteranno, continueranno a spirar la vita, la salute, la vigoria nelle vene dei vostri figli. Proteggetele!!…”.

Tale accorato appello verrà in vario modo ripetuto negli anni successivi, quando quasi a scadenza venticinquennale si avanzavano sempre nuovi progetti per lo sfruttamento delle sue acque. Il pericolo per la verità non si è del tutto allontanato e, nonostante le suppliche sommesse e le vigorose proteste, il fiume oggi ha molto perso del suo antico splendore e turgore di acque. Ne sono prova inequivocabile le foto scattate in tempi diversi.

È stata quell’acqua a fare di Isola del Liri la fervida Manchester italiana del l’Ottocento, ricca com’era di fabbriche, dai panni di lana alle cartiere, dai pastifici ai feltrifici.

Un’acqua che se da un lato ha dato vita e lavoro ai suoi cittadini, si è dall’altro ritrovata nel tempo “morta” e inanimata, se pensiamo ai gamberi, alle trote, ai lucci e alle lamprede che hanno guizzato tra le onde si da essere -almeno i gamberi- addirittura immortalati nello stemma civico raffigurante appunto due rossi gamberi di fiume in verticale ai lati di un castello merlato sormontato da due chiavi incrociate all’ingiù su un letto d’acqua ondeggiante.

Ma qui tocca fare un passo indietro nel tempo per scoprire, se possibile, l’anno di nascita di tale gioiello.

Non c’è molto da sfogliare per la verità e grazie a chi l’ha fatto già prima di noi, scopriamo che la sua presenza potrebbe addirittura risalire all’anno 1004, quando nella Cronaca Cassinese viene detto che Raineri, gastaldo della città di Sora, ottiene in eredità un luogo chiamato “Colle dell’lsola”, se -come qualche storico ritiene- si tratta di quello scoglio che divide in due il fiume e sul quale più tardi sorgerà il Castello ducale.

Ma se il Collis de Insula è tuttora oggetto di diatriba tra studiosi della storia locale circa la sua effettiva localizzazione (di pareri diversi sono infatti l’Antonelli, il Rizzello, il Pistilli ed il Carbone), più certa appare l’ esistenza di “Isola” -detta proprio cosi anche nel testo latino- in un atto di donazione del 1043, in cui si dice che era nei confini di Sora, che aveva nel suo territorio due chiese, San Pietro Apostolo e Santa Lucia Vergine, e un ponte ed era qualificata come “civitas ‘ quindi con una struttura ben definita, perché esistente, forse, già da decenni.

Qualcuno azzarda addirittura a datare le sue origini in epoca romana sulla base di ritrovamenti avvenuti nelle zone circostanti l’ attuale nucleo abitato, sulle alture della Selva di S. Sebastiano e di Montemontano. Nella prima e in particolare nella zona di Forli, latinamente detta Forulum, doveva esserci fin dall’antichità un nucleo abitativo perché zona di passaggio e forse anche di sosta e di smercio tra le più sviluppate località di Sora, Veroli e l’attuale Casamari, la Cereate romana.

Nell’ultima passava invece un’ altra importante arteria che portava a Fregellae, nei pressi di Ceprano. Sono, infatti, venuti alla luce nella zona di Montemontano reperti archeologici, degni di studio e di valore, che forse sono solo l’apice di più ricchi e complessi ritrovamenti se e quando si metterà mano all’opera di scavo con rigore storico-scientifico e in stretta collaborazione con le Amministrazioni locali.

La parte bassa, quella che oggi ospita il vero e proprio centro di Isola del Liri, doveva essere a quel tempo dominio incontrastato della natura se pensiamo che della Cascata non parla né Cicerone né Giovenale. Forse non c’era ancora ed è nata come opera dell’ uomo che ha imbrigliato le sue acque verso quel dirupo? O forse c’era già, ma non visibile coperta com’era da fitta boscaglia? Anche perché le strade latine che da Sora e da Arpino, altro centro di indubbia storia, si dirigevano a Roma e a Napoli, passavano per tutt’ altra via ed è possibile ancora ammirare nel vicino territorio di Arpino un interessante tratto di strada lastricata con grossi massi in pietra, detta appunto la Via latina.

La storia di Isola si identifica all’ inizio degli anni 1000 con quella della vicina Sora, della cui Contea entra a far parte dopo essere stata, come già detto, un Gastaldato, possedimento cioè di quei gastaldi, dignitari longobardi dagli ampi poteri civili e militari, come ll debrando figlio di Rachisio (970), il cugino Teutone figlio di Alessandro (989), Pietro I figlio di Teutone (1009), Raineri altro figlio di Alessandro (1012-1021), Pietro Il marito di una certa Donna Doda, figlia di Oderisio feudatario di Vicalvi.

Saranno i loro figli quei famosi “figli di Pietro” che daranno a questo antico borgo feudale l’ appellativo di lnsula filiorum Petri? In verità, non sono certo pochi i personaggi della famiglia “de InsuIa” resi ora immortali dalla toponomastica del centro storico, in quelle stradine e vicoli che si intersecano con la maggiore piazza del paese.

Spulciando tra le carte più antiche si viene a scoprire di un Petrus de lnsula che, monaco benedettino, fu eletto nel 1174 Abate di Montecassino col nome di Pietro ll, partecipò al Concilio Laterano e morì nel 1186; del suo successore, Roffridus de lnsula, più uomo politico e guerriero che non uomo di chiesa: sarà lui uno di quei Baroni coinvolti nella lotta per la successione al trono di Sicilia tra il figlio del Barbarossa, Enrico VI, che ne aveva sposato la legittima erede, Costanza d’Altavilla, ultima della Casa normanna e I’altro pretendente Tancredi, figlio naturale di Ruggero.

Negli ultimi intrighi di tali lotte anche il Castello di Isola ebbe un suo ruolo per la vigorosa resistenza opposto nel 1207 contro l’esercito papalino avverso al Conte di Sora, Corrado di Marlenheim, che poi sconfitto si arrenderà e Isola passerà, sempre con Castelluccio (l’attuale Castelliri), la cui storia è a lungo corsa sugli stessi binari, nelle mani di Riccardo Conti, fratello del Papa Innocenzo III.

Ma la pace non è di questo mondo. Altre lotte si succederanno nella contesa tra i due “grandi” del tempo, il Papa Innocenzo III e l’imperatore suo figlioccio, Federico II. La Contea di Sora, cui Isola apparteneva, ne fu pienamente coinvolta perché si opponeva all’ Imperatore e pagò la sua resistenza con distruzioni a ferro e fuoco. Isola stessa fu data alle fiamme.

Con la morte di Federico Il nel 1250 e la discesa in Italia di Carlo d”Angiò, l’InsuIa filipetri fu riorganizzata e il castrum (il castello) affidato ad un contergius, segno inequivocabile della modesta portata delle sue fortificazioni. Solo più tardi, infatti, esso verrà articolato in un vero e proprio castello.

Sono questi della metà del Duecento gli anni in cui si affaccia per la prima volta un francese nella storia isolana, anche se per poco. Dopo una breve parentesi, infatti, in cui il feudatario d’oltraIpe Robert De Brienson ottiene il governo di Isola in cambio dei servigi resi al suo re Carlo I, la terra bagnata dal Liri torna nelle mani dei suoi antichi “padroni”, Bartolomeo figlio di Roffredo nel 1276 e Federico Isola.

Poi, come tutte le vicende del mondo, anche quest’astro declina e nel 1316 in un diploma del re Roberto leggiamo che un certo Novellone di Salvilla è signore di Isola e Castelluccio.

Seguono anni oscuri per la storia del nostro paese, al termine dei quali lo ritroviamo come possedimento della famiglia “de Celano”, nobili della Marsica e in particolare si parla di due signori, Matteo e Paolo da Celano, divenuti famosi nel 1393, per l’atroce vendetta perpetrata ai danni del libidinoso violentatore di una loro zia, grande dama vedova, e poi ancora di un Giuliano, signore di Isola intorno al 1452.

Il possesso dalle mani dei Celano cadrà in quelle dei Cantelmo grazie ad un matrimonio “politico” tra una vedova di quelli, Antonella e Nicolò Cantelmo, che diviene prima Conte poi Duca di Sora.

La storia di Isola e Castelluccio, sempre coniugata con quella della vicina Sora, è destinata a rimanere ancora vittima delle lotte tra Aragonesi e Angioini. Nel 1463, infatti, la rocca di Isola fu attaccata dalle bombarde di Napoleone Orsini al comando delle milizie papali che, abbattuta la torre maggiore al di là del fiume, se ne impadronirono: Isola rimaneva in possesso della Chiesa.

Sarà il nuovo Papa Sisto IV a rinunciare a tale diritto e a dare il ducato di Sora al nipote Leonardo della Rovere prima e a Giovanni d’Aragona della Rovere nel 1475.

La “rocha del castello de lsula” sarà ancora una volta protagonista di una ribellione: il 5 Agosto 1496 i Baroni locali vi si riuniranno per firmare la loro alleanza con il re di Francia Carlo Vlll sceso in Italia contro il re Ferdinando II d’Aragona. Un mese più tardi tale ribellione sarà punita e l’unico a salvarsi sarà proprio Giovanni della Rovere, cui succederà nel 1501 il figlio Francesco Maria il Vecchio.

Sono già gli anni, questi del Cinquecento, della prima industrializzazione con la prima cartiera e invalchiera. Il 5 Dicembre 1580 il ducato di Sora –e con esso Isola- viene venduto a Giacomo Boncompagni, marchese di Vignola, figlio del Papa Gregorio Xlll per 100.000 scudi d’oro.

Tale famiglia dominerà sino al 1795, scegliendo come residenza preferita proprio il Castello sulla Cascata, che aveva già allora sale ampie e confortevoli «di longhezza più di 100 palmi e con stantie grandi e magnifiche». Ciò nonostante, il duca volle ampliarlo corredandolo anche di un teatro e decorando volte e pareti con stucchi e affreschi, progettando il trasferimento della Chiesa nella parte bassa del paese ai piedi del castello e introducendo l’arte della lana “alla maniera fiorentina”.

La minaccia incombente, in quegli anni di fine ‘500, di briganti rissosi viene presto allontanata da Isola e i Boncompagni si succedono l’un l’altro nel governo di tale città. La genealogia di tale famiglia è presto fatta: a Giacomo morto il 26 agosto 1612 seguirono Gregorio I (+ 13 ottobre 1628), Giacomo ll (+ 18 aprile 1636), Ugo (+ 28 ottobre 1676), Gregorio II (+ 1 febbraio 1707), Antonio l& che nel 1702 aveva sposato una giovanissima nipote, Maria Eleonora, da cui ebbe 5 figli e si spegnerà il 28 gennaio 1731.

Un altro dei Boncompagni, Gaetano, governò in un’epoca esplosiva a causa di una congiura che si concluse con centinaia di arresti dei filo-austriaci e lo stesso Carlo III nel 1744 si fermò ad Isola per riconfermare la propria autorità nella zona, vero focolaio insurrezionale. Venti anni più tardi il paese soffrirà di una grave siccità e carestia.

Gaetano formò una ricca biblioteca nel Palazzo, fece ricostruire la cupola della Chiesa di S. Lorenzo voluta dal suo predecessore, speroni di sostegno alla chiesa e allo stesso castello, la stanza del bargello e le stallette nella corte fuori la porta del Regno (l’attuale ponte Napoli) andate distrutte in un incendio.

Antonio ll, ultimo duca della famiglia, resse Isola dal 1777 al 1795, quando tali terre passarono al Regio Demanio e il castello si chiamò allora Regio Palazzo. Altre opere arricchirono il piccolo centro: un casino sul Colle S. Sebastiano, due ponti levatoi sulle Cascate, una rameria al Valcatoio, una fabbrica dell’arte della seta…

Gli ultimi anni del Settecento, il secolo dei lumi, sono segnati a livello internazionale e a livello locale dagli sconvolgimenti della Rivoluzione francese e dai tristi fenomeni del brigantaggio, che si vengono a sommare ai ripetuti assalti delle milizie francesi, sempre più padroni ormai anche della Terra del Lavoro.

Lotte e sangue segnano le cronache dell’anno 1799: truppe francesi provenienti da Roma mettono l’11 marzo a ferro e fuco prima Castelluccio uccidendo gli inermi, poi si dirigono verso Isola, ove trovano i ponti levatoi alzati e le porte sui due ponti sprangate. Si spara, si trema di paura, chi è fuori scappa sulle colline, chi è dentro si rifugia nel castello e i francesi si ritirano.

Nel paese è festa: suoni di campane e Messe di ringraziamento indicano la gioia per lo scampato pericolo Ma i francesi tornano alla carica il giorno di Pasqua, il 24 Marzo, armati questa volta di cannone e molto più numerosi: 3000 contro i 300 della prima volta.

Attestatisi sulla collina di S. Sebastiano, aprono il fuoco, ma le cento palle di cannone cadono a vuoto e a loro rispondono colpi di fucili e di spingarde dalla torre del Castello. Arrivano rinforzi e ancora una volta i nemici sono respinti e inseguiti Questi però non transigono.

Nove mesi dopo inizia un più lungo assedio, che terminerà il 13 Aprile, quando giunge dal Sud un migliaio di francesi che hanno guadato il fiume Liri a Ceprano. Gli aiuti sperati questa volta non arrivavano e si decide di aprire le porte per evitare una carneficina. Contro gli Isolani ritenuti per questo imbelli e giacobini perché dalla parte dei Francesi, insorgono i briganti e i vicini Sorani e Arpinati. Isola non sembra avere più né amici né pace e, quando la mattina del 12 Maggio una colonna francese comandata dai generali Wetrin e Olivier, di stanza a Napoli, cerca di raggiungere il Nord passando per le nostre terre, dominate da briganti come Gaetano Mammone e Valentino Alonzi, detto Chiavone, è la strage!

Due dragoni francesi si presentano al ponte di Regno davanti la Cascata, per chiedere di passare, ma in risposta ricevono due fucilate. Ne nasce una sparatoria e il ferimento della moglie di uno dei generali fa scoppiare la “brama” dello sterminio.

Colpi di cannone abbattono la porta e i soldati inferociti si gettano con odio sugli Isolani, che cercano di difendersi buttandosi anche in acqua. Chi viene preso, non ha scampo e chi ha pensato di potersi salvare rifugiandosi in chiesa, si è vanamente illuso. Proprio lì, su quel pavimento e tra quelle mura, intrise di pianto e di preghiera, cadono centinaia di persone, che si vanno tristemente ad aggiungere alle altre centinaia trucidate fuori. Si contano circa 600 morti, tra uomini, donne e bambini innocenti, ma anche case sventrate, raccolti bruciati, cadaveri mutilati, dignità offese… Ma è la fine anche del brigantaggio.

Per Isola si aprono nuovi orizzonti: dalle ceneri dei suoi morti e delle sue rovine rinasce un nuovo paese e -ironia della sorte- proprio grazie ai… Francesi!

Un nuovo Re è dal 6 Settembre 1808 sul trono di Napoli, Gioacchino Murat, cognato di Napoleone per averne sposato la sorella Carolina e imprenditori francesi vengono al suo seguito nel nostro paese per utilizzarne l’enorme ricchezza idrica offerta dal Liri.

È tutto un fiorire di imprese e un susseguirsi di attività all’“uso di Francia”: Carlo Lambert nel 1809 allestisce nel Castello una filatura e tessitura di pannilana, suscitando però le ire e le proteste vigorose dei tessitori locali che alla vista del telaio meccanico temono la disoccupazione e sembra che abbiano addirittura buttato giù dalla Cascata quell’indemoniato attrezzo.

Un secondo francese del tempo è Carlo Antonio Beranger, cui viene affidato l’ex Convento di S. Maria delle Forme (divenuto “ex” per via delle Leggi Napoleoniche sui beni della Chiesa) per allestirvi una manifattura di carta, così come un altro ex Convento, quello Conventuale di Piazza S. Francesco nel centro storico, viene ceduto ad un laniere, Gioacchino Manna, mentre la Chiesa annessa resta alla Congrega del SS. Crocifisso.

Strade nuove sono aperte all’operosità degli Isolani e indietro non si torna neanche con la caduta del regime napoleonico in Francia e di quello murattiano a Napoli, dove nel giugno 1815 tornano i Borboni con Ferdinando IV.

Gioacchino Murat -asserisce ironicamente la Pinelli nel suo Quaderno di ricerche “L’occupazìone francese”- cade vittima della sua stessa disposizione di legge contro chi, come i briganti, impugna imprudentemente le armi: da ciò sembra scaturita quella significativa espressione paesana: “Giuacchine féce la légge i Giuacchine ce capetètte”.

Il progresso è di casa ora all’ Isola di Sora. Al Beranger succede Carlo Lefebvre, che porta nella sua Cartiera del Fibreno la macchina “senza fine” e acquista per merito il titolo di Conte di Balsorano. Il figlio Ernesto impianterà una fabbrica di carta da parati e altri nomi francesi diverranno familiari agli lsolani, da Roessinger a Boimond, da Courrier a Emery, per fermarci solo ai più famosi.

Si conciano le pelli, si fabbrica la pasta di legno, altre cartiere fanno la concorrenza alle prime. Né i nostri sono da meno, se umili operai locali acquisiscono perizia e conoscenze al punto da diventare migliori dei maestri, arrivando in taluni casi a sostituirli nella direzione e nel possesso degli stessi stabilimenti, come capitò al giovane Pietro Alonzi o a Domenico Corona, che si industriò a fabbricare i feltri per le cartiere.

E pure in francese si prega con le prime Suore di Carità chiamate ad aprire il primo educandato femminile francese è pure il maestro di banda.

Una società altolocata e brillante anima, infatti, la vita del piccolo e fervido paese con le sue feste da ballo e le iniziative culturali, la cui eco si diffonde oltre le belle ville edificate per lo più in periferia, nella parte alta, che vanitosamente prende il nome di “piccola Parigi”, ben nascoste agli sguardi indiscreti dagli alti muri di cinta e dalla rigogliosa vegetazione dei parchi e giardini, oggi inghiottiti o sventrati dalle case, spesso di destinazione operaia, cresciute in prossimità delle fabbriche, quelle fabbriche che purtroppo hanno pagato qui come altrove lo scotto della recessione economica.

Dopo gli anni del boom, in cui avere un posto in fabbrica era il sogno di tanti giovani che vedevano così il loro futuro assicurato, le cartiere, i lanifici, i pastifici, i feltrifici, i cartonifici isolani hanno o chiuso i battenti e visto cadere le loro ciminiere o si sono trasferiti altrove, ammodernando i loro macchinari, aggiornando i loro quadri. Sono poche le attività industriali presenti ancora nella… Manchester dell’ Ottocento e tanti fabbricati che un tempo non lontano pulsavano di vita, con il ritmo incessante dei loro ingranaggi, il suono delle sirene che scandivano la giornata di un intero paese, l’animosità degli operai, la fama dei loro prodotti, oggi sono veri e propri “reperti” di archeologia industriale!

Ma il popolo isolano non demorde e saprà trovare soluzioni originali e impensate ai suoi grossi problemi